In questo contributo la domanda sulla bellezza si situa all’interno di un contesto ermeneutico-narrativo. La bellezza viene declinata come rivelazioni della compiutezza, in un percorso che da Aristotele ci conduce a Kermode, a Ricoeur, alle pagine bibliche: il senso della fine insito nelle costruzione narrative riflettiamo su come la fruizione estetica faccia scaturire una visione d’insieme su porzioni di esistenza e di temporalità, e promuova un giudizio etico che ricapitola e dona senso ai fatti della storia, parziali e discontinui. Ci troviamo di fronte ad un quadro concettuale in cui la compiutezza ha bisogno del limite e, viceversa, il limite trova la sua esplicazione nel definire qualcosa di compiuto: il limite può essere letto esteticamente come forma ed eticamente come fine, telos. Da ultimo, ci poniamo tre dubbi importanti sul destino della compiutezza, e ragioniamo sull’eclissi del compimento nei luoghi delle pratiche umane. Il significato della compiutezza rimanda da sempre alla completezza, alla perfezione. Basta aprire un dizionario per rendersi conto che l’essere completo o compiuto si dice di qualcosa che è finito in sé: una forma, un’azione, una narrazione, un elenco, che possono dirsi completi, compiuti, riusciti, oppure al contrario essere incompleti, parziali, limitati, non compiuti. Oggi, nella nostra contemporaneità pensata nelle categorie della instabilità e della crisi, resiste forte tuttavia una idea di libertà basata sulla percezione della compiutezza, che da una parte si fa esperienza estetica della definizione delle forme, ma che dall’altra si esprime nella sua antitesi di pratiche di imparzialità, di limite, di deformazione. Questo studio intende dunque declinare il tema della bellezza e dell’etica nelle dimensioni reali della completezza e del suo contrario. Dalla passione per il “senso della fine” nelle storie raccontate, alla coscienza dei grandi eventi che fanno la storia; dagli ideali di bellezza inseguiti con il corpo, alle politiche di definizione delle regole sociali, finanche alle delimitazioni delle frontiere nazionali e delle relazioni tra Stati: è possibile che la percezione delle forme possa essere il nastro che scorre e tiene insieme tutti questi aspetti delle pratiche umane? Proviamo allora ad affrontare la questione della percezione estetica della compiutezza in questi diversi ambiti della prassi attraverso la filosofia ermeneutica e gli studi sulla narratività, utilizzando alcuni degli strumenti concettuali che ci sono stati offerti da Frank Kermode, Paul Ricoeur, Vladimir Jankélévitch, Karl Jaspers, e più recentemente da Peter Sloterdijk, ma senza trascurare di riaprire le pagine del libro Quinto della Metafisica di Aristotele sulla perfezione e il limite.

Tutto è compiuto. Estetica della compiutezza, pratiche di parzialità

Fabrizia Abbate
2019-01-01

Abstract

In questo contributo la domanda sulla bellezza si situa all’interno di un contesto ermeneutico-narrativo. La bellezza viene declinata come rivelazioni della compiutezza, in un percorso che da Aristotele ci conduce a Kermode, a Ricoeur, alle pagine bibliche: il senso della fine insito nelle costruzione narrative riflettiamo su come la fruizione estetica faccia scaturire una visione d’insieme su porzioni di esistenza e di temporalità, e promuova un giudizio etico che ricapitola e dona senso ai fatti della storia, parziali e discontinui. Ci troviamo di fronte ad un quadro concettuale in cui la compiutezza ha bisogno del limite e, viceversa, il limite trova la sua esplicazione nel definire qualcosa di compiuto: il limite può essere letto esteticamente come forma ed eticamente come fine, telos. Da ultimo, ci poniamo tre dubbi importanti sul destino della compiutezza, e ragioniamo sull’eclissi del compimento nei luoghi delle pratiche umane. Il significato della compiutezza rimanda da sempre alla completezza, alla perfezione. Basta aprire un dizionario per rendersi conto che l’essere completo o compiuto si dice di qualcosa che è finito in sé: una forma, un’azione, una narrazione, un elenco, che possono dirsi completi, compiuti, riusciti, oppure al contrario essere incompleti, parziali, limitati, non compiuti. Oggi, nella nostra contemporaneità pensata nelle categorie della instabilità e della crisi, resiste forte tuttavia una idea di libertà basata sulla percezione della compiutezza, che da una parte si fa esperienza estetica della definizione delle forme, ma che dall’altra si esprime nella sua antitesi di pratiche di imparzialità, di limite, di deformazione. Questo studio intende dunque declinare il tema della bellezza e dell’etica nelle dimensioni reali della completezza e del suo contrario. Dalla passione per il “senso della fine” nelle storie raccontate, alla coscienza dei grandi eventi che fanno la storia; dagli ideali di bellezza inseguiti con il corpo, alle politiche di definizione delle regole sociali, finanche alle delimitazioni delle frontiere nazionali e delle relazioni tra Stati: è possibile che la percezione delle forme possa essere il nastro che scorre e tiene insieme tutti questi aspetti delle pratiche umane? Proviamo allora ad affrontare la questione della percezione estetica della compiutezza in questi diversi ambiti della prassi attraverso la filosofia ermeneutica e gli studi sulla narratività, utilizzando alcuni degli strumenti concettuali che ci sono stati offerti da Frank Kermode, Paul Ricoeur, Vladimir Jankélévitch, Karl Jaspers, e più recentemente da Peter Sloterdijk, ma senza trascurare di riaprire le pagine del libro Quinto della Metafisica di Aristotele sulla perfezione e il limite.
2019
978-88-9314-192-5
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11695/92787
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