Nel mondo circa un milione di persone ogni anno si toglie la vita, il numero di tentativi di suicidio si aggira tra i 10 e i 15 milioni all’anno e fino ad un terzo della popolazione presenta ideazione suicidaria in qualche momento della propria vita. Per tutti questi motivi, l’assessment della suicidalità e, di conseguenza, la decisione di ospedalizzare o meno un paziente considerato a rischio, costituisce una delle principali funzioni esercitate dai professionisti della salute, anche in termini di costi economici per la società. Nonostante la vasta letteratura sullo studio delle condotte suicidarie, ad oggi non risulta ancora possibile prevedere con certezza quali pazienti tenteranno di togliersi la vita, pertanto l’obiettivo principale dell’assessment è costituito dall’identificazione, quantificazione e, in seguito, gestione dei fattori di rischio scientificamente individuati come tali. Questa corretta valutazione resta però spesso disattesa, tanto che è stato stimato che tra il 34 e il 66% delle vittime di suicidio ha contattato il proprio medico e il 18-21% il proprio psichiatra nelle 4 settimane precedenti la propria morte. Sebbene diverse agenzie abbiano stilato proprie linee guida sulla gestione del rischio di suicidio, non esistono criteri definiti in base ai quali scegliere se ricoverare o meno un paziente; vi è però un sostanziale accordo sul fatto che la gravità e l’imminenza del rischio suicidario rappresentino ragioni sufficienti ad un’ospedalizzazione con un contenimento e un controllo costante, oltre che con un intenso trattamento psichiatrico. Secondo le linee guida diffuse dalla WHO, un ricovero immediato è necessario quando sono presenti pensieri ricorrenti circa il suicidio, l’intenzione di togliersi la vita nell’immediato futuro, agitazione o panico, oppure un piano sull’utilizzo di un metodo disponibile e violento. Altri fattori considerati decisivi per un ricovero sono la disponibilità di mezzi letali, recenti fattori di stress, presenza di disturbi psichiatrici, un basso grado di supporto sociale e precedenti tentativi di togliersi la vita. In uno studio di Baca-Garcia et al. (2004), le variabili che sembrano meglio predire la decisione di ospedalizzare un paziente a seguito di un tentativo di suicidio sono risultate: l’intenzione di ripetere il tentativo di togliersi la vita, un basso funzionamento psicosociale prima del tentativo, precedenti ricoveri per disturbi psichiatrici e precedenti tentativi di suicidio. Ciò che occorre comunque tener presente è che il semplice ricovero non è sufficiente a scongiurare il pericolo, anzi talora può rappresentare un fattore di aumentato rischio di suicidio. Pertanto è sempre necessaria una presa in carico globale del paziente, una rivalutazione costante del rischio così come una pianificazione adeguata degli interventi da attuare anche a lungo termine e al di fuori del contesto ospedaliero.

INDICAZIONI AL RICOVERO NEL PAZIENTE SUICIDARIO

SARCHIAPONE, Marco
2011-01-01

Abstract

Nel mondo circa un milione di persone ogni anno si toglie la vita, il numero di tentativi di suicidio si aggira tra i 10 e i 15 milioni all’anno e fino ad un terzo della popolazione presenta ideazione suicidaria in qualche momento della propria vita. Per tutti questi motivi, l’assessment della suicidalità e, di conseguenza, la decisione di ospedalizzare o meno un paziente considerato a rischio, costituisce una delle principali funzioni esercitate dai professionisti della salute, anche in termini di costi economici per la società. Nonostante la vasta letteratura sullo studio delle condotte suicidarie, ad oggi non risulta ancora possibile prevedere con certezza quali pazienti tenteranno di togliersi la vita, pertanto l’obiettivo principale dell’assessment è costituito dall’identificazione, quantificazione e, in seguito, gestione dei fattori di rischio scientificamente individuati come tali. Questa corretta valutazione resta però spesso disattesa, tanto che è stato stimato che tra il 34 e il 66% delle vittime di suicidio ha contattato il proprio medico e il 18-21% il proprio psichiatra nelle 4 settimane precedenti la propria morte. Sebbene diverse agenzie abbiano stilato proprie linee guida sulla gestione del rischio di suicidio, non esistono criteri definiti in base ai quali scegliere se ricoverare o meno un paziente; vi è però un sostanziale accordo sul fatto che la gravità e l’imminenza del rischio suicidario rappresentino ragioni sufficienti ad un’ospedalizzazione con un contenimento e un controllo costante, oltre che con un intenso trattamento psichiatrico. Secondo le linee guida diffuse dalla WHO, un ricovero immediato è necessario quando sono presenti pensieri ricorrenti circa il suicidio, l’intenzione di togliersi la vita nell’immediato futuro, agitazione o panico, oppure un piano sull’utilizzo di un metodo disponibile e violento. Altri fattori considerati decisivi per un ricovero sono la disponibilità di mezzi letali, recenti fattori di stress, presenza di disturbi psichiatrici, un basso grado di supporto sociale e precedenti tentativi di togliersi la vita. In uno studio di Baca-Garcia et al. (2004), le variabili che sembrano meglio predire la decisione di ospedalizzare un paziente a seguito di un tentativo di suicidio sono risultate: l’intenzione di ripetere il tentativo di togliersi la vita, un basso funzionamento psicosociale prima del tentativo, precedenti ricoveri per disturbi psichiatrici e precedenti tentativi di suicidio. Ciò che occorre comunque tener presente è che il semplice ricovero non è sufficiente a scongiurare il pericolo, anzi talora può rappresentare un fattore di aumentato rischio di suicidio. Pertanto è sempre necessaria una presa in carico globale del paziente, una rivalutazione costante del rischio così come una pianificazione adeguata degli interventi da attuare anche a lungo termine e al di fuori del contesto ospedaliero.
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